50 anni fa la morte di Luigi Tenco. Anarchico, tormentato e sincero. Nelle sue canzoni il lato oscuro dell'anima

di M.L 27/01/2017 ARTE E SPETTACOLO
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Venerdì 27 gennaio 2017 è  il 50 anniversario della morte di Luigi Tenco, un episodio che, nonostante la riapertura dell'inchiesta e le testimonianze dei tanti che lo conoscevano continua ad avere dei risvolti oscuri. La storia racconta che Tenco si è suicidato, a 29 anni, sparandosi un colpo alla tempia nella sua stanza dell'Hotel Savoy a Sanremo, la notte in cui era stato eliminato dal festival, dove cantava in coppia con Dalida, "Ciao amore ciao".

 In un biglietto aveva lasciato scritto che non sopportava l'idea di vivere in un Paese che mandava in finale "Io tu e le rose". Un gesto così estremo resta difficile da capire, soprattutto pensando al fatto che ha portato via a soli 29 anni un genio della musica. Tenco ha lasciato tre album, qualche inedito, e un canzoniere straordinario. "Mi sono innamorato di te", "Vedrai vedrai", "Lontano lontano", "Un giorno dopo l'altro", "Ragazzo mio", "Ciao amore ciao", "Se stasera sono qui", "Ho capito che ti amo", per citare solo i titoli più famosi.

 Individuare nella tristezza la caratteristica principale della scrittura di Tenco significa relazionarsi alla sua discografia con una prospettiva monca, non sufficiente a comprendere la sua arte. Invece occorre riconoscere nel cantautore alcuni tratti rivoluzionari nell’approccio riflessivo alla forma canzone

In lui convivono la centralità emozionale dunque, la malinconia del vivere ma anche un sguardo per così dire filosofico, una visione sulla vita che negli anni sessanta non era certo quella predominante nel panorama musicale popolare nazionale.

 Luigi Tenco, come nessuno prima e nessuno dopo di lui, ha avvicinato in primis il tema dominante di tutte le canzoni del mondo, l’amore, e lo ha rivoltato, iniziando a osservarlo e raccontarlo da una prospettiva completamente nuova, costruendo una nuova interpretazione del sentimento più desiderato e temuto. Al centro dei brani, insomma, non ci sono più solo le emozioni, com’era accaduto sempre e come sempre accadrà nella maggior parte delle canzoni d’amore che popolano le nostre vite, ma la natura profonda, spesso persino cerebrale della nascita, dello sviluppo e della fine di quei sentimenti.  

 Proprio a partire dagli angoli di alcuni brani della sua discografia a tema sentimentale, Luigi Tenco compone un meno conosciuto repertorio di brani connessi a tematiche sociali andando a distruggere in modo completamente avanguardistico alcune concezioni in auge negli anni '60.

Le canzoni d’amore e non solo quelle di Tenco sono antiborghesi, si stagliano contro il pensiero dominante borghese e in fondo anche contra l’idea restrittiva che gli esseri umani possano trovare la loro piena realizzazione emotiva affettiva solo all’interno della coppia e della famiglia.

Ma la sua è una visione a tutto tondo che non riguarda solo i sentimenti. Ne "La ballata della moda", Tenco prova, attraverso le peripezie di un personaggio protagonista, Antonio, a raccontare il meccanismo che porta la comunità a seguire la moda, autoconvincendosi di agire per volontà e gusto e non, come invece accade in realtà, per automatico stordimento pubblicitario mediatico come diremmo oggi. E molti sono le canzoni nelle quali il cantautore piemontese esprime il suo originale e inquieto punto di vista sul mondo. Come ne "La ballata dell'arte", dove si formalizza il dibattito sul legame tra arte e società, tra uomo artista e uomo comune, qui cita Nietzsche, il mito della personalità e del Superuomo e si apre a una vera e propria dichiarazione di politica poetica.

 Anche quando scrive d’amore, Tenco lo fa da una prospettiva completamente originale e originaria, ovvero al di fuori della concezione generalmente accettata e purtroppo ancora oggi imperante. L’intera “Mi sono innamorato di te” altro non è che il racconto, razionalizzato, del processo dell’innamoramento, qualcosa che insomma scardina lo stilnovismo alla buona a cui le canzoni italiane popolari ci avevano abituato. Un senso di noia, di solitudine percepita (“non avevo niente da fare”), sprofonda sui luoghi comuni; non i capelli biondi, gli occhi chiari, la pelle morbida e le gambe lunghe della donna, Noia e mal di vivere prendono il posto dell’innamoramento romantico.

 In Tenco vive e prende corpo la soggettività anarchica e tormentata dell’individuo contemporaneo, nella sua arte si sono mescolati con un’alchimia lirica straordinaria, esistenzialismo e poesia, riflessione e versi. Un’estetica la sua che non poteva che inevitabilmente portarlo a scontrarsi con il conformismo del boom economico degli anni sessanta.

Come Per Pasolini, per Dino Risi e Fellini, anche per Tenco lo sviluppo economico è qualcosa di illusorio, di abbagliante, qualcosa che va ad intaccare nel profondo l’essenza dell’essere umano. Da qui forse i tanti rimandi nei versi al bisogno antropologico della fuga, di vivere e sentirsi lontani da un mondo in cui si vive come stranieri.

E proprio nel decennio delle grandi utopie, Luigi Tenco rappresentò e incarnò fino alla fine l’uomo senza "ideali alti", che si smarrisce, che non sa “cosa fare”, ma prova con forza a dolore a "sentire" la sua anima.

Un percorso di vita e d’arte questo che Tenco scelse con orgoglio e consapevolezza, con piglio anche arrogante - si trattava probabilmente di una maschera- che gli dovette pesare, e non poco.

Il prezzo che pagò furono una inguaribile solitudine e una mai sopita irrequietezza, che oggi, dopo cinquant’anni, ci restituiscono il suo meraviglioso e sincero, fino alle estreme conseguenze, viaggio narrativo alla ricerca di se stesso. 

 

 


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